venerdì 12 giugno 2015

I fatti dell'America che voglio raccontare


Oggi in Florida ci sono tanti gradi. Non ho ancora imparato i Fahrenheit, ma se stessi dalle mie parti direi semplicemente che si schiatta di caldo. Dopo una lunga biciclettata ed un tuffo in piscina sono tornata a casa ed ho aperto Facebook. Ho visto un video di Cristiano Ronaldo che difendeva un bambino giapponese che cercava di intervistarlo in portoghese. E tutti I giornalisti in sala a ridere, perchè il povero bambino un po’ per timidezza un po’ perchè-cavolo, non era la sua lingua- mostrava non poche difficoltà di espressione. Giustamente il buon Ronaldo ha detto (traduco) “Perchè state ridendo, dovreste apprezzare..he’s trying hard”.  Ed io ho pensato "Ben detto Ronaldo. Ora posto proprio il tuo video sulla mia bacheca e scrivo giusto due frasi per commentare".
Insomma, queste due frasi sono diventate molte di più, e allora mi sono detta, “Cavolo Dalila, se hai così tanto da dire scrivi un post sul tuo blog”. E così ho fatto. Da quando sono qui in America, non ho scritto più na’ riga. Sono stata a piangere, a parlare su skype con i miei amici lontani, ad imprecare contro gli americani, ad essere bestemmiata dagli americani, e non una riga. Eppure ho così tanto da dire. Io sono finita in una cittadina piccola piccola nel cuore della Florida. Sono finita nel Sud, dove non ci sono i grattacieli, la gente parla difficile, fa caldo, ci sono degli insetti strani e i coccodrilli. E non ho scritto neanche una riga. Sono finita in un posto dove, quando esci dalla città ci sono chiese ovunque, croci enormi piantate nei prati, cartelli anti –abortisti, cartelli anti- evoluzionisti. Per non parlare delle armi che si vendono anche nei grandi supermercati. E non ho scritto nulla. Vivo in una cittadina abbastanza segregata, dove ci sono le scuole dei bambini neri e le scuole dei bambini bianchi, i bar degli adulti neri ed i bar degli adulti bianchi. Non puoi dire "negro"- neanche per sbaglio-, non puoi parlare di segregazione, tutti fanno i politically correct, ma ci sono dei bar dove mi ritrovo ad essere l’unica bianca nel raggio di 10 km. Eppure, non ho scritto nulla. E nel frattempo ne sono successe di cose! Dopo aver subito un’aggressione verbale solo perchè avevo i capelli neri e la pelle un po' più scura, dopo che un mio amico afroamericano mi ha detto che esiste ancora il  ku klux klan e dopo che ho visto il video di Ronaldo ho deciso di riscrivere su questo blog. Io voglio parlare di questa America. Perchè ci sono tante cose che voglio dire. Voglio parlare di questa America perchè ci sono delle cose che nei film non vediamo. Però voglio anche scrivere su come mi sento io qui, sulle belle persone e animali che ho incontrato e le cose strane che vedo, mangio e mi raccontano. 
E ritornando a Ronaldo voglio dire che ogni volta che abbiamo di fronte uno straniero proviamo  ad ascoltare e mettiamolo a suo agio. Oggi noi siamo i nativi, domani noi saremo gli stranieri. E stranieri o nativi  a parte, siamo pur sempre esseri umani che vogliono comunicare.  Dico queste cose anche perchè sono lontana dall'Italia e non mi piace affatto quello che sta succedendo. Non mi piacciono i commenti razzisti che leggo sui giornali, non mi piace come lo Stato e gli Italiani stanno affrontando il problema dell'immigrazione. Che poi problema non è se solo fossimo un popolo più evoluto e ben governato. Detto questo, io ci tengo davvero a scrivere su questo blog perchè ci sono delle cose che vedo qui che non vorrei mai accadessero in Italia. Ed ho paura di ritornare un giorno in Europa e di volermene di nuovo scappare. 

giovedì 20 febbraio 2014

Ultime cose da fare: la lista

Con le dita sto già portando il conto: i biglietti sono fatti, la cartella-documenti è tutta sistemata, mi mancano gli ultimi fogli di accertamenti sanitari. È iniziato il conto alla rovescia e, nel tempo libero, compilo una lista di cose assolutamente da fare prima di partire. 
In questi ultimi, dilanianti, infiniti e insistenti giorni di pioggia, faccio finta di essere da un’altra parte, possibilmente a casa dei miei, a fare le valige per la Florida, possibilmente in Puglia, con 22 gradi, il sole e le mimose già in fiore. Così me ne starei: a manica corta, in braccio al mare e senza far niente, ad aprire la lista delle cose da fare:
1)Addentare 1 euro di focaccia. Quella sottile, bruciacchiata, con il pomodoro sopra. Quella che lascia sulla carta  l’alone di olio e che quando finisci di mangiare (nonostante carta e  fazzoletti) hai le mani tutte unte e i pezzetti di pomodoro in mezzo ai denti.



2)Andare a mangiare il panzerotto da Di Cosimo. Il panzerotto di Di Cosimo è gigante, che non bastano due mani per tenerlo. La mozzarella straborda insieme a tutto il sugo e se non vuoi sporcarti lo devi mangiare con tutta la carta attorno, un poco piegato in avanti. Il panzerotto di Di Cosimo è rigorosamente fritto, va mangiato bollente che quasi quasi ti bruciano le labbra.




3) Poi voglio prendere un gelato enorme, a Polignano, guardando il mare e le casette piccole, di pietra. Di quella pietra che prende il sole come una bagnante. Quella pietra morsa dalla salsedine, scalfita dal vento. Che ha un odore proprio. Voglio scendere gli scalini che portano al mare con in mano il gelato più grosso della mia faccia, la panna sotto e sopra così il cono non rimane mai vuoto.



4)E poi voglio mettermi in bicicletta e farmi tutto il Lungomare fino alla Fiera del Levante, possibilmente al tramonto, con l’asfalto tiepido e i gabbiani che urlano. Vorrei pedalare senza staccare gli occhi dal cielo rosa, passare dal pescivendolo che apre i ricci, vedere i pescatori che ritirano le reti, sentire la puzza delle alghe che marciscono sul marciapiede e i bidoni della spazzatura piene di Peroni. Voglio arrivare fino al faro, dove inizia a sentirsi il profumo dei forni a legna, quelli delle pizzerie che si affacciano sul mare. Voglio legare la bici al palo, prendere la pizza nel cartone, gli anellini fritti e la coca cola. Voglio sedermi sul muretto in ciabatte e guardare il mare fino a quando non mi stanco, fino a quando non finisce tutta la pizza, fino a quando è buio e non c’è più niente da vedere.



5) Voglio andare a fare la spesa al mercato rionale dove ti gridano addosso, dove se chiedi –ma questi mandarini come sono?- il fruttivendolo ti risponde –Signorì na squisitezza- e poi ti prende il mandarino, te lo apre a metà e ti dice –Assaggi, assaggi. Mangi scorz e tutt-


6) Vorrei salutare tutte le zie e i cugini, stare con la mia famiglia e mangiare le cose buone, con la zia che cucina come se non ci fosse un domani, come se in America non si trovasse del cibo. Come se le cose buone si trovano solo qui, con questo sole e questa terra. Che un po’  forse è vero
    Ma più di tutti vorrei salutare mia nonna, che non vedo da tempo, che non so se mi riconosce, che l’ultima volta che le ho detto – Nonna non vado più a scuola, vivo a Milano ora- lei ha pensato che Milano fosse lontana come un altro continente. Allora vorrei dirle -Nonna vado in America- e lei mi racconterà che gli americani li ha visti per davvero, che dopo la guerra gli americani facevano il filo alle sue amiche e che a lei  davano la cioccolata.

Penso che siano di più di queste 6 cose, ogni giorno me ne viene in mente un’altra da fare. Perché non voglio stare mai ferma prima di partire. Perché bisogna viaggiare, adattarsi, sperimentare, andare da na parte e da un’altra. Ma casa non la vedo da tempo, e a casa, spesso e volentieri si ritorna.






martedì 11 febbraio 2014

CASA dolce (?) CASA...

Prima di andar via da Milano devo togliermi un sassolino dalla scarpa (anzi una punes!). Voglio dire due cose o forse un po’ di più  sulla situazione “case”. 
Lo so, che palle, un sacco di gente ha pubblicato post, foto, fatto studi, grafici e statistiche su questa piaga urbana. Io vi prometto di metterci poco, anche perché il grosso è già stato detto a voce.
Sviscererò la questione in pochi, dolorosissimi punti, chiudendo una volta per tutte l’argomento con un augurio rivolto alla mia attuale coinquilina, a tutti i miei amici che vivono qui, a quelli che verranno o magari  a me che un giorno tornerò.
Ma, in fin dei conti, questo vuol essere un post per i padroni di casa, per quelli che intascano i soldi senza contratto, per quelli che con un contratto ti danno una casa a malapena dignitosa e per quelli che affittano casa manco fossimo a Manhattan ammesso e non concesso che ci sia una minima giustificazione per affittare case a dei prezzi cosi alti. E che case!!!
Iniziamo quindi dal principio, da una nozione base, quasi da vocabolario:

1.Per casa s’intende una struttura abitativa entro la quale un essere umano protegge se stesso dagli agenti atmosferici. Dai primitivi ad oggi l’uomo ha sempre cercato di crearsi un ambiente confortevole dove mangiare, dormire, fare i propri bisogni e varie ed eventuali. Bene, iniziamo ad escludere dagli affitti tutte quelle strutture che case non sono, ma continuate a spacciare come tali: scantinati senza finestre, soffitte al buio e simil prefabbricati in cortili condominiali.
2. In Italia, o meglio qui a Milano, un ragazzo della mia età prende in media, e nel periodo in cui fortunatamente lavora, uno stipendio di 800 euro. Che cazzo mi rappresentano le stanze singole a 700 euro? Si va bene sono in Porta Venezia, d’accordo la casa è appena stata ristrutturata e va bene anche che le spese condominiali sono alte, ma signori miei una camera a 700 euro è anti costituzionale.
3. La casa che Tu mi rendi il giorno stesso in cui io (A NERO) ti metto i soldi in mano, non è un deposito per topi, ma è e rimarrà pur sempre la Tua casa. Se poco t’importa di tenerla “sana” (senza fogne che esplodono o muri che cadono dalla muffa) per la mia salute, fallo almeno per te stesso perché un giorno forse quella casa sarà dei tuoi figli o dei tuoi nipoti.
4. Un ambiente dignitoso non comprende mobili costosi o sanitari di design. Abbi cura di lasciarmi una casa dove anche tu abiteresti o che affitteresti ad una persona che potrebbe essere tua amica. Dopotutto pensi che con 1200 euro che ti metti in tasca puliti  sarebbe così difficile fare qualche lavoretto di manutenzione ogni tanto?
5.  La caparra è un modo di tutelarsi e non di fregarsi ancora più soldi. Non puoi chieder 5 mesi di caparra su un posto letto in stanza doppia.
6. Le finestre, i balconi e tutte le prese d’aria e i punti luce sono elementi indispensabili in un’abitazione. Fanno parte della carta dei diritti degli affittuari.

Mie cari amici che restate e tutti voi in cerca di una casa...

Va bene uno spazio piccolo, va bene una sola finestra, va bene il 4° piano senza ascensore, va bene il letto ad una piazza, il lavandino che perde, gli infissi vecchi. Va bene stare a nero, va bene la stanza a porta Venezia a 700 euro, ma cercate sempre di farvi lasciare in mano le chiavi di un posto dignitoso. Dove vi alzate la mattina e sorridete. Dove esiste una finestra che vi fa respirare e da dove potervi affacciare per vedere un po’ di sole. Fuori da quelle mura non ci saranno sempre giornate belle, ma al vostro rientro cercate sempre il sorriso che avete lasciato al risveglio.


lunedì 10 febbraio 2014

Che poi non è mica tanto lontana...

Fino all'estate del 2013 io l'America l'avevo vista solo nei film. 
Nella mia testa, Lei era tutt'una: un pezzo grosso di terra lontana senza distinzione di stati, di gente, senza Sud e senza Nord, era l'America e basta.

A pensare che un tempo si andava con le navi fin là in fondo, tutti stretti: uomini, bambini e animali. Si faceva insieme questo lunghissimo viaggio per poi toccare terra. Vedere l'America e sperare.

Oggi in una spicciolata di ore sei già dall'altra parte del mondo e, in men che non si dica, ti ritrovi in un posto pieno di moquette e bicchieri giganti, catturato dalla magia del fuso orario, che guardi l'orologio e  fai il conto con le dita per vedere -Che ora è adesso in Italia?-.

Oggi l'America non è più così lontana, per tutti  e specialmente per me.

Sono passati 5 mesi dal mio rientro in Italia e mi ritrovo per la seconda volta a compilare un lunghissimo e barbosissimo modulo online per ottenere il Visa. 
Io, proprio Io, che da ragazzina boicottavo qualsiasi cosa fosse a stelle e strisce, che se mi chiedevano un posto dove mi sarebbe piaciuto andare dicevo in America, mai! e che classificavo  i film in americanate e tutti gli altri  film.

Io, che l'America la vedevo tutta d'un pezzo, sbracata su vari oceani, oggi mi ritrovo a lasciare tutto per trasferirmi in un piccolo puntino di sto gran pezzo di terra.

Ho finalmente realizzato che l'America ha gli Stati, la gente è diversa seppur tutta americana, esiste il Nord, il Sud e si mangiano un sacco di cose buone, non solo le schifezze. Nei supermercati ci sono le confezioni di latte da 5 litri (che la prima volta mi sembravano detersivi), ma ci sono anche i pomodori, l'insalata e le zucchine. 

In America, in una piccola parte d'America, con i suoi propri abitanti, il suo codice d'avviamento postale, la sua latitudine e longitudine, io porto le mie valigie e ci provo.

Qui lascio un lavoro qualsiasi, mal retribuito e decisamente frustrante. Come tanti, mi sono laureata e stra-laureata a pieni voti, ho in tasca un master ed uno stage non retribuito. Oggi ho uno stipendio con cui a stento pago l'affitto, le bollette, l'abbonamento ATM e le mele FUJII all'Esselunga. 

Ho deciso di lasciare tutto per amore e per fare un regalo a me stessa. Non è detto che l'America sia per forza la mia terra promessa, ma di sicuro Milano non lo è.

Sono curiosa.

Anche solo di vedere come si vive laggiù, se c'è un posto per me, se anche io posso trovare la mia casa. Nei film americani c'è quasi sempre il lieto fine. Proprio a me deve finire all'italiana ?



In partenza. Si spera senza ombrello

Dimissioni: date
Disdetta casa: fatto
Trasloco: in corso

Sono in quel di Milano ancora per 18 giorni. Diciotto giorni di fatica, a guardar fuori e vedere piovere, piovere e ancora piovere. A Milano non vale l'ottimismo del  Non può piovere per sempre: qui per giorni diventi un tutt’uno con l' ombrello, manco avessi tre braccia. 
Penso che l’ombrello sia stata la spesa più ricorrente dacché sono in questa città. Ne ho comprati di tutti i tipi: quelli di tre euro sotto la metro che si rompono subito subito, quelli  resistenti formato famiglia che sopravvivono alle piogge a vento, quelli da collezione, quelli vintage, da borsetta e quelli grandi quanto una mano. A conti fatti uno stipendio è andato via solo per ombrelli. 
Molti son deceduti durante quelle giornate di cielo incazzato, quando a Milano piove “a sifoni”, come se stesso venendo giù una divina punizione all’umana specie. Altri li ho sparpagliati un po’ in giro, dimenticandoli in angoli improbabili della città: attaccati alle maniglie del bus, nei camerini prova di H&M, sotto i tavolini di vari locali e nei portaombrelli di innumerevoli luoghi X.
Diciamo che la pioggia è il terzo incomodo presente in quasi tutti i ricordi che ho di questa città, come l’elemento indesiderato in una foto: pioveva durante due traslochi, durante il mio secondo colloquio di lavoro, per ben due miei compleanni di fila, pioveva durante gli allenamenti, all’uscita dell’Esselunga, della pizzeria, pioveva quando decidevo di stendere fuori il bucato.
E non fai in tempo a dire che non ti piace la pioggia che subito arriva un’afa stringi collo, per cui finita la lamentela sulla pioggia ne inizia un’altra sull’umidità. Insomma questa città non va bene a tempo indeterminato, è un luogo che caccia più che accogliere, è un punto di appoggio, una strada di passaggio.

Eppure ci sono i giorni in cui Milano si fa amare, quei giorni tiepidi e intermedi di primavera, con il cielo arancione che si allunga fino alle 8 di sera, i boccioli dei fiori che scoppiano nei parchi. Sono i giorni della mezza manica e dell’ottimismo, quei giorni che stanno per diventare qualcosa, i giorni del quasi e del non ancora, in cui si annotano i progetti  e si raccolgono i buoni propositi.

Durante questi ultimi mesi ho messo a punto il mio piano di fuga da Milano, con tutto il bene del mondo, ma questa città per il momento, non fa per me. Del doman non v’è certezza.

Mi sono armata di scotch e di scatoloni e ho dato il via ad uno degli scenari più ricorrenti di questi ultimi tre anni: Messer Trasloco. E devo dire che con il tempo mi sono specializzata.
Gli armadi sono quasi vuoti, da casa a casa la roba diventa sempre meno (della serie leggeri è meglio), la scatola dei libri si è rimpicciolita notevolmente, ed è stata  la prima ad essere imballata.
Sono quasi in partenza, quest’anno passerò la stagione del non ancora altrove, non ci sono ripensamenti, né tanto meno nostalgie latenti.


Di sera, dopo aver chiuso l’ennesimo scatolone mi addormento con una sola speranza, che è anche un augurio per gli abitanti di questa città: SignoreIddio, fa che almeno nel giorno del trasloco ci sia il sole.



mercoledì 23 ottobre 2013

Se la Nutella non si chiamasse Nutella, Rita sarebbe il suo nome!

Sabato appena trascorso. Una squisita cena a casa di amici a base di zucca e pane fatto in casa. Vino bianco e taralli zuccherati per dessert. Intermezzo a base di tonno che due di noi hanno preferito saltare -Sono vegetariano, non mangio bestie!-, spiegava un amico al padrone di casa.

Tra una portata e l’altra le guance si facevano rosse, le conversazioni spezzettate affrontavano svariati temi e fuori un debole autunno alitava sulla città:

La prima nebbiolina.

Arrivati al dolce iniziavamo a parlare di cose importanti, il vino regalava le giuste parole per affrontare temi caldi: politica, alimentazione, scelte di vita, cambiamenti radicali. Piccole e grandi rivoluzioni. Si passava dalle colpe del mondo per arrivare alle responsabilità individuali. Una piccola e accogliente tavola democratica: ognuno ci teneva a dire la sua e ascoltava  interessato la risposta altrui.

Almeno in cucina e davanti ad un buon bicchiere divino la democrazia sembra ancora possibile. Pare anche che ci siano buoni intenti per cambiare la propria vita e impegnarsi a dare il meglio di sé.

Noi italiani siamo bravi a fare queste cose, soprattutto a tavola.

Cavolo si è fatto tardi!, in due ci scambiamo uno sguardo complice per dirci che dobbiamo darci na’ mossa se non vogliamo perdere l’ultima metro
Dopo tutti quei bei discorsi su un mondo più sostenibile ci diciamo –Dai la facciamo a piedi!- ed effettivamente potevamo visto che avevamo una cena da smaltire.
Poi però una scusa tira l’altra e via in metro fino ad una fermata che ci consentisse comunque una bella passeggiata fino a casa.

Sentivo la zuppa di zucca ancora calda nello stomaco e il lievito del pane appena sformato creare i primi bozzi sulla pancia. La digestione aveva inizio, si riapriva il dibattito.

Guardavo gli alberi lunghi e fruscianti che ondulavano nel buio. Maestosi abbracciavano il  Parco Sempione  per proteggerlo dalla notte.

Hai visto quella cagata della Nutella? C’è scritto Pasquale sui barattoli!-. Il mio amico riapriva il gioco democratico della conversazione.

- Ma sì!- gli rispondevo, -è la stessa cosa che ha fatto la Coca Cola, stessa razza-.

- Ti dirò di più- aggiungevo, -Su facebook spopolano già le prime foto. Devi vederle: barattoli personalizzati con frasi d’amore-.

- Del tipo 1 kilo di amore e di bontà con i nomi dei fidanzatini-.
-Oh Signore!-  rispondeva lui. –Ma la gente è stupida!-
- Non è informata! – rispondevo in modo politically correct.

Questo processo di personalizzazione del brand pare faccia sentire i consumatori più coccolati. Come se la marca si rivolgesse singolarmente ad ognuno di loro riportando i propri nomi. Come se la Nutella o la Coca Cola s’incaricassero di coronare sogni d’amore al cioccolato o di firmare dediche.

La verità è che a nessuno frega niente. Vogliono solo entrare di più nelle nostre case, nei nostri stipetti, nelle nostre foto Instagram. Non stanno lavorando per te, ma stanno agendo contro di te. Svegliati!!!

Il nome sulla confezione non è una firma, è la strategia di un brand. Elementare Watson!
 - Ci pensi a fare a Bari una pubblicità del genere?- Riprendeva il discorso.
 Come la chiami la Nutella? Vito? Pinuccio? Nicola?-
-Guarda che funzionerebbe- gli rispondevo -E comunque sta’ roba prima o poi arriverà dappertutto!-

Poi però pensavo a tutte quelle persone che non badano alle marche, vuoi per saggezza, vuoi per risparmio, me compresa, per l’uno e per  l’altro motivo.
E gli dicevo – Fosse per me continuerei a comprare la Spalmella del Discount. Hai presente quella bicolore zuccheratissima?-

Scoppiavamo in una sonora risata immaginando queste mega famiglione del Sud che spingono i carrelli dentro al Penny Market.  I bambini che urlano tra un corridoio e l’altro del supermercato –io voglio questo- -Mamma mi compri questo???- E no perché prendiamo sempre questi biscotti. A me fanno schifo!- E  via con urli e piagnistei, calci ai carrelli e lacrime amare versate davanti ai Pan di Stelle della Mulino Bianco.

Il nome sul pacco è un’eccezione, una trovata. Durante il mese si va al supermercato con l’ansia del 27, si contano gli spiccioli fino all'ultimo centesimo.
Il nome sulla confezione è per le foto su Instagram, per gli autoscatti in fila al Duomo, per il regalo a San Valentino.

Purtroppo, dopo il nome sul pacco la gente penserà che, anche senza firma propria, quel brand è vicino alle persone, alle famiglie e si prende cura di noi. Questo è il triste scenario dopo l’eccezione.

La serata è finita, arriviamo con un po’ di tristezza davanti al portone. Gira e rigira il mondo non è così facile da cambiare, ma partiamo da noi.

Mi rullo una sigaretta dal portatabacco lasciato sul tavolo. Dovrei smettere, altro che Nutella. Della serie chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Ma, la domanda è,  chi è davvero senza peccato?